Dilexit nos

Tutti noi abbiamo vissuto con commozione i giorni finali del pontificato di Francesco e quelli iniziali di Leone XIV. Molti si sono affannati a mettere in evidenza l’eredità di Francesco. A seconda dei commentatori, sono state sottolineate l’impegno per un mondo fraterno, la preoccupazione ecologica, la dimensione sinodale della Chiesa, l’attenzione ai poveri e agli emarginati. Cose sacrosante, naturalmente. Però c’è qualcosa che mi pare più fondamentale e che ha sottolineato giustamente la nota scrittrice Susanna Tamaro.

In un articolo sul Corriere della sera (24.04.2025), la Tamaro individua il lascito più prezioso di Francesco nell’enciclica Dilexit nos. Ella nota come, a differenza delle encicliche Laudato si’ (2015) e Fratelli tutti (2020), su Dilexit nos sia calato un silenzio mediatico. Forse perché questa enciclica tocca la questione decisiva del nostro tempo: la perdita del cuore (con la c minuscola) e la necessità di tornare, secondo le parole della stessa Tamaro, a quel «Cuore non manipolabile» (con la c maiuscola).

Anche perché pubblicata pochi mesi prima della sua morte, la Dilexit nos di Francesco appare come il suo testamento. In questo senso, si potrebbero applicare a lui le parole di padre Dehon: «vi lascio il più meraviglioso dei tesori: il Cuore di Gesù».

In questa relazione, dopo una breve introduzione al documento, mi chiederò anzitutto in che cosa consiste l’importanza della devozione al Sacro Cuore e, successivamente, il motivo per cui questa devozione parla ancora al nostro tempo e alle nostre società.

Breve introduzione a Dilexit nos

Come sappiamo, il magistero dei pontefici nel Novecento ha dedicato una costante attenzione alla devozione al Sacro Cuore. Pio XI dedica al tema l’enciclica Miserentissimus Redemptor (1928) sostenendo che nella devozione al Sacro Cuore vi è «la somma di tutta la religione e quindi il modello della vita più perfetta». Pio XII, nel 1956 scrive l’Haurietis aquas, in cui si afferma che l’onore da rendere al Sacro Cuore è «la più alta espressione della pietà cristiana».

Va notato che tali affermazioni si collocano però in un momento in cui questa devozione, che è indubbiamente la devozione tipica dell’età moderna, sta vivendo una crisi che sarebbe poi emersa, per molti aspetti, come irreversibile. Questa crisi era motivata sia da ragioni interne alla devozione stessa, cioè il suo linguaggio e la sua iconografia, i suoi fondamenti biblici, dogmatici e liturgici, sia da una progressiva secolarizzazione che determinava un crescente disagio nei confronti delle pratiche devozionali dei secoli passati. Nonostante gli sforzi di approfondimento teologico e di aggiornamento devozionale del post-Vaticano II non si è registrata una decisiva inversione di tendenza.

Per questo è sorprendente che in un tempo in cui tale devozione appare del tutto marginale, almeno in Occidente, Francesco la riproponga in modo autorevole. In perfetta continuità con i suoi predecessori la considera come “sintesi” del Vangelo: «Lì possiamo trovare tutto il Vangelo, lì è sintetizzata la verità che crediamo, lì vi è ciò che adoriamo e cerchiamo nella fede, ciò di cui abbiamo più bisogno» (Dilexit nos, n. 89). Vorrei sottolineare queste ultime parole: «ciò di cui abbiamo più bisogno». Non solo si ribadisce il senso di questa devozione, ma se ne riconosce autorevolmente l’attualità, quasi l’urgenza. Vedremo poi come Dilexit nos, non diversamente da Haurietis aquas, considera la devozione al Sacro Cuore come rimedio e salvezza di fronte ai mali del tempo presente.

L’enciclica appare come un testo letterariamente composito. Le fonti sono diverse: per esempio, nel primo capitolo (uno dei più originali e freschi), il papa afferma di aver attinto agli appunti del confratello p. Fares; il secondo capitolo è una meditazione biblica, gli altri capitoli appaiono più scolastici e in certi tratti più aridi. Oltre alla Bibbia e alla riflessione dei teologi, l’enciclica attinge abbondantemente al magistero dei santi (da Ignazio Loyola a Teresa di Lisieux, da Margherita Maria Alacoque a Charles de Foucauld). Non mancano poi riferimenti alla letteratura (per esempio Dostoevskij) e a filosofi contemporanei (Heidegger, Han). Diverso è anche lo stile del documento, che alterna l’argomentazione teologica alla tonalità omiletica, il riferimento ai grandi avvenimenti della storia, come le guerre, alle esperienze più intime, come le nonne che piangono (n. 22) o persino gli esempi più famigliari come le frittelle che vengono chiamate “bugie” (n. 7). tale alternanza di stile, insieme a una certa ripetitività e lunghezza, non sempre rende agevole la lettura. Più di un lettore ha sottolineato la pesantezza del testo, talvolta addirittura una certa giustapposizione del materiale utilizzato. Ciò che per alcuni è creatività, per altri può essere confusione.

Al di là del giudizio sullo “stile” dell’enciclica, rimane il fatto che il Magistero si rivolge a una devozione e la considera non solo positivamente, ma la propone in modo autorevole a tutta la Chiesa, persino all’umanità. Sappiamo come in passato, quando questa devozione si è configurata nella sua forma moderna, ci sono state tensioni e resistenze: il Magistero è stato molto cauto nell’incoraggiare e persino nel permettere devozione.

Dilexit nos, invece, guarda con stupore e gratitudine a questa devozione. Ne propone un itinerario di comprensione che si potrebbe riassumere in tre passaggi: dal cuore (dell’uomo) al S. Cuore (1-2 cap.); dalla devozione alla teologia (3 cap.); dall’esperienza personale alla dimensione sociale (4-5 cap.).

Non seguirò in dettaglio questi tre itinerari, ma mi soffermerò su due questioni di fondo. La prima riguarda la devozione. Perché una devozione viene proposta in modo così insistente? Che cosa ci può dire oggi la devozione al Sacro Cuore? La seconda questione tocca la società contemporanea, ovvero l’attualità di una tale devozione nel contesto sociale e culturale in cui viviamo.

Il senso della devozione oggi

La prima questione da affrontare riguarda dunque il senso della devozione oggi. Che cos’è la devozione e come si può definire? Secondo Tommaso, la devozione è un atteggiamento interiore che implica la disponibilità a donarsi generosamente e prontamente a Dio. Questo atteggiamento interiore si realizza concretamente attraverso le devozioni, che sono pratiche che incarnano questo atteggiamento. Il concetto di devozione implica un intreccio tra disposizione interiore e pratica esteriore: ciascuna dimensione rimanda all’altra e la sostiene.

La devozione concretizza la fede e orienta la sua pratica in relazione a Dio. Il concetto di pratica è fondamentale perché la nostra vita quotidiana è plasmata dalle nostre pratiche, che costruiscono la nostra identità. Facendo alcune cose noi diventiamo qualcuno, in un certo senso. Lo aveva intuito Pascal, in un celebre pensiero, quando affermava che per credere occorre anzitutto provare a fare delle cose, come prendere l’acqua benedetta, far dire delle messe ecc… (Pensée, 164 = 233). Ora, la devozione funge da pratica unificante. L’obiettivo di questa pratica è modellare la propria vita quotidiana e la propria esperienza spirituale in accordo con l’oggetto della devozione, che in questo caso è il Cuore di Cristo.

Secondo la Dei Verbum, uno dei mezzi con cui cresce la comprensione della fede è «la comprensione penetrante delle realtà spirituali» (DV 8) di cui fanno esperienza i credenti. È proprio questo il luogo della devozione: l’esperienza delle cose spirituali. La devozione non nasce solo dalla teologia, cioè da un insieme di verità teologiche astratte che solo in un secondo momento vengono rese pratiche. La devozione non è un semplice rivestimento o applicazione della teologia. Non si deve pensare che ci sia prima una teologia “chiara e distinta” e poi una devozione che la traduce in immagini e pratiche. In realtà, la devozione nasce dall’esperienza, da una sorta di connaturalità o intuizione spirituale.

La devozione al Sacro Cuore, con la sua storia complessa e le varie figure che vi fanno riferimento, nasce senza dubbio da «una penetrante comprensione delle realtà spirituali». In un’epoca in cui la teologia si separava sempre più da tale esperienza e accentuava il suo profilo accademico e razionale, la devozione permetteva, in qualche modo, un diverso accesso a Dio. Un accesso che aggirava l’eccessiva cautela del linguaggio teologico, il suo astrattismo, la tentazione di racchiudere Dio entro schemi rassicuranti.

Padre Dehon vive precisamente in questo contesto teologico, dominato dal rigore ma anche dalla freddezza della neoscolastica. E vive la devozione precisamente come possibilità di accedere in modo diverso, altro, al mondo di Dio. La condizione di questo accesso non è più la ragione, ma come ha rilevato bene Marcello Neri (Giustizia della misericordia, p. 56ss) la confiance. Scrive nell’ultima meditazione della prima Couronne d’amour: «Sì, è la fiducia che ci salverà, è la fiducia che ci condurrà alla vita interiore, alla contemplazione; è la fiducia che ci renderà perfetti producendo l’oblio di noi stessi; perché chi non ha o ha poca fiducia nel Sacro Cuore eccede in fiducia per se stesso. […] Gustiamo e vediamo quanto è buono il Cuore di Gesù, e la nostra fiducia e il nostro amore saranno senza limiti». Qui dunque si contrappongono, in modo sapienziale (cf. Sal 1), due tipi di confiance: la fiducia in se stessi e quella nel Cuore di Gesù, che produce l’oblio di sé e conduce alla vita interiore.

Torniamo al concetto di devozione. Abbiamo visto come la devozione funga da istanza critica nei confronti della teologia, delle sue pretese, dei suoi schemi, della sua eccessiva sicurezza. La Dilexit nos lo riconosce in modo esplicito facendo proprie le parole del teologo Olegario González de Cardedal, che scrive: «sotto l’influsso del pensiero greco, la teologia a lungo ha relegato il corpo e i sentimenti nel mondo del pre-umano, dell’infra-umano o della tentazione del vero umano, ma ciò che la teologia non ha risolto in teoria l’ha risolto la spiritualità in pratica. Essa e la religiosità popolare hanno mantenuto vivo il rapporto con gli aspetti somatici, psicologici e storici di Gesù. La Via Crucis, la devozione alle sue piaghe, la spiritualità del prezioso sangue, la devozione al cuore di Gesù, le pratiche eucaristiche […]. Tutto ciò ha colmato le lacune della teologia alimentando l’immaginazione e il cuore, l’amore e la tenerezza per Cristo, la speranza e la memoria, il desiderio e la nostalgia. La ragione e la logica hanno preso altre strade» (n. 63).

Se questo è vero, si deve però dire anche che sarà compito della teologia dedicarsi al discernimento critico della forma devozionale, evidenziandone le potenzialità e i limiti. Se una devozione, intesa in senso oggettivo e storico, è autentica, è capace di trasmettere un’autentica dedizione a Dio, una devotio per l’appunto. Da qui la necessità di discernere costantemente se una data devozione è adeguata o meno rispetto a questo scopo: questo è il compito della teologia e del Magistero ecclesiale.

In tale senso, Dilexit nos in diversi momenti compie una sorta di “ermeneutica della tradizione”, volta a distinguere fra ciò che è il nucleo permanente della devozione al Sacro Cuore e le sue forme storiche, e quindi caduche. Lo fa rispetto alle immagini del Sacro Cuore, che talvolta «possono sembrarci poco attraenti e non muoverci granché all’amore e alla preghiera» (n. 57), o riguardo alle visioni mistiche e alle rivelazioni private, a cui non siamo tenuti a credere (n. 83), oppure, ancora, a certe pratiche, come l’ora di adorazione del giovedì, che non sono strettamente obbligatorie (n. 85).

Insomma, mentre le pratiche devozionali non solo possono, ma debbono trovare espressioni adeguate ai tempi, la devozione esprime il nucleo permanente che dev’essere costantemente riscoperto e alimentato. In tal senso, occorre sempre di nuovo tornare al centro. Tale centro è costituito da un simbolo – il Cuore del Salvatore – che ha conosciuto rappresentazioni e interpretazioni molto diverse nel corso della storia. Questo elemento simbolico non può essere semplicemente accantonato riconducendolo immediatamente all’amore a cui si riferisce. Deve essere mantenuto nella sua densità di simbolo. E il simbolo, afferma Ricoeur, dà origine al pensiero (donne à penser). Con questa massima, spesso citata, Ricoeur vuole affermare fondamentalmente due cose. La prima: il significato è posto dal simbolo stesso, non da noi. La seconda: ciò che il simbolo dà qualcosa da pensare. Prima il dare, poi il porre. Il Sacro Cuore, dunque, donne à penser. Anche oggi richiede un’alleanza tra l’esperienza delle cose spirituali e l’intelligenza della fede.

Ora, il simbolo alla base della devozione al Sacro Cuore non è solo un simbolo. È un cuore di carne, un “simbolo reale”, come direbbe Rahner. Contro ogni spiritualismo disincarnato, si riferisce a un cuore di carne. Karl Rahner sottolinea come “cuore” sia una parola originaria (Urwort) che esprime l’unità e la completezza dell’uomo, il suo centro più intimo. È nel cuore che convergono tutti gli aspetti, le facoltà e le dimensioni che costituiscono l’uomo. Aggiunge inoltre che questa parola non significa immediatamente amore. È solo a contatto con il cuore del Salvatore che l’uomo sperimenta in modo impensabile l’amore come il suo stesso centro, la sua vocazione originaria, il suo destino ultimo.

La devozione al Sacro Cuore trova la sua ultima consistenza e verifica nel suo “oggetto”, cioè il cuore di Gesù. È evidente che questo oggetto non è stato inventato dalla devozione, poiché il riferimento all’umanità di Gesù e al mistero del suo amore appartiene all’essenza stessa del cristianesimo. La devozione ha il merito storico di aver accentuato questo aspetto, facendone la pietra angolare, la sintesi, dell’esperienza spirituale cristiana. Allo stesso tempo, ha il compito di farsi continuamente “misurare” da quell’oggetto, per corrispondere alla sua verità.

Il Cuore di Gesù si riferisce sempre alla persona di Gesù, non è mai staccato da essa. Di conseguenza, non è un simbolo dell’amore in generale, ma è un simbolo di quell’amore concreto, storico, che Gesù di Nazareth ha manifestato nella sua singolare libertà. Ed è allo stesso tempo apertura al cuore di Dio, simbolo del mistero di quel Dio che è agape (1Gv 4,8). Nel cuore di Gesù convergono singolarità e universalità. È “quel” cuore, il cuore dell’uomo Gesù di Nazareth e allo stesso tempo il “cuore del mondo”, che è fatto in lui, per mezzo di lui e per lui (cfr. Col 1,15-20). È il cuore che manifesta la verità del cuore dell’uomo e allo stesso tempo la verità del cuore di Dio, la verità di Dio come cuore.

Scrive la Dilexit nos riportando le parole di Benedetto XVI: «Dall’orizzonte infinito del suo amore, Dio ha voluto entrare nei limiti della storia e della condizione umana, ha preso un corpo e un cuore; così che noi possiamo contemplare e incontrare l’infinito nel finito, il Mistero invisibile e ineffabile nel Cuore umano di Gesù, il Nazareno» (n. 64).

L’attualità della devozione al Sacro Cuore per la nostra società

Veniamo ora alla seconda questione, ossia l’attualità della devozione per il tempo presente e la società attuale.

Già in quanto si è detto emerge il carattere “sintetico” di questa devozione.  Si tratta di una pratica che permette il collegamento tra la dimensione sensibile e quella spirituale, tra affectus e logos. Il cardinale Tolentino de Mendoça afferma che una spiritualità basata sul Sacro Cuore permette di sviluppare «una nuova grammatica spirituale in grado di conciliare concretamente gli elementi che la cultura odierna considera spesso incompatibili: ragione e sensibilità, efficienza e affetto, individualità e impegno sociale, amministrazione e compassione, spiritualità e corpo, legge e cuore» (Rediscovering the Place of the Heart, 324).

Questa sintesi fra elementi potenzialmente in conflitto è preziosa oggi in particolare in riferimento alla scissione fra vita individuale e legame sociale. Se ci pensiamo bene, fin dalle rivelazioni a Santa Margherita Maria Alacoque, la devozione al Sacro Cuore è stata la storia di un complesso intreccio tra pubblico e privato, tra mondo interiore e sfera sociale. Per molto tempo, la devozione al Sacro Cuore è stata accompagnata dall’ideale di una restaurazione della regalità di Cristo nel mondo: il cosiddetto “regno sociale di Cristo”, interpretato sovente in modo reazionario.

È ovvio che non si può sognare una nuova crociata antimoderna, come in certi settori della Chiesa di oggi. Tuttavia, non si deve perdere il legame tra interiorità e sfera pubblica che la devozione al Sacro Cuore stabilisce. Dovremmo essere in grado di valorizzare le ripercussioni sociali che una devozione può avere. Allo stesso tempo, dovremmo considerare che la prassi sociale è bisognoso di attingere alle potenzialità della fede. La devozione, in altri termini, dovrebbe aiutare a superare una sorta di schizofrenia della fede, in cui il credente vive in due mondi separati: quello privato e caldo della fede percepita come consolazione, e quello pubblico e freddo in cui la fede viene messa da parte e si agisce secondo una logica puramente mondana.

L’interiorità plasmata dalla devozione al Sacro Cuore è intrinsecamente aperta. Centrata sull’amore, non può che essere in riferimento agli altri e quindi alla società. Inoltre, l’idea di società promossa da questa devozione non può che essere incentrata sul rispetto integrale della persona e sul vincolo di solidarietà che lega tutti gli uomini. L’amore, contenuto della devozione al Sacro Cuore, rivendica una forma politica. È una forza di edificazione sociale. Il programma sociale del cristiano, ha detto Benedetto XVI, è «un cuore che vede».

Temi come il bene comune, la gratuità delle relazioni, la ricerca di un’economia giusta e inclusiva, l’umanesimo di fronte alla tecnologia, la pratica della giustizia riparativa, sono in tale sintonia con la pratica della devozione al Sacro Cuore. E il suo potenziale critico è altrettanto decisivo: contro la riduzione mercantile o tecnocratica della persona, che nega la sua interiorità e fa del corpo una sorta di materiale plasmabile senza riferimento allo spirito; contro il privatismo dell’io, che nega la dimensione sociale dell’essere umano. Abbiamo quindi bisogno di una devozione che non si ripieghi su se stessa, che non si riduca a una serie di pratiche staccate dalla vita, ma che sia capace di plasmare l’esperienza del soggetto e la sua azione sociale.

L’enciclica Dilexit nos ci fornisce alcuni elementi che vanno in questa direzione. La nostra società è a rischio di perdere il cuore. Lo si dice molto esplicitamente al n. 17 quando si ricorda l’individualismo che frammenta il legame sociale e chiude l’individuo in se stesso: «L’anti-cuore è una società sempre più dominata dal narcisismo e dall’autoreferenzialità. Alla fine si arriva alla “perdita del desiderio”, perché l’altro scompare dall’orizzonte e ci si chiude nel proprio io, senza capacità di relazioni sane. Di conseguenza, diventiamo incapaci di accogliere Dio».

In questo breve passaggio sono offerte tre indicazioni preziose. Anzitutto l’idea che a dominare la nostra società sia il narcisismo, ovvero lo sguardo rivolto ossessivamente su di sé. Pierangelo Sequeri ha scritto: «Nella postmodernità non è più Prometeo il primo santo del calendario irreligioso, come voleva Marx. E nemmeno Dioniso, come voleva Nietzsche. È Narciso» (Contro gli idoli postmoderni, p. 74). La seconda cosa che viene detta è che il dominio del narcisismo conduce alla perdita del desiderio. Come è possibile questo, se è vero che oggi possiamo realizzare tanti desideri che nel passato non potevamo raggiungere? Il fatto è che oggi realizziamo desideri “rimpiccioliti”, come “oggetti di consumo”, che ci portano a desiderare sempre di più e a non essere mai soddisfatti di ciò che abbiamo raggiunto. Infine, in questo numero si dice che tale dinamica è determinata dalla nostra chiusura in noi stessi, che ci preclude anche l’incontro con Dio. Se non sappiamo aprirci all’altro (con la a minuscola), come sapremo aprirci all’Altro (con la a maiuscola)?

Un’altra analisi interessante della situazione antropologica contemporanea è offerta al n. 9 dell’enciclica, dove si riprendono le parole di Giovanni Paolo II: «Nella società di oggi, l’essere umano “rischia di smarrire il centro, il centro di se stesso”. “L’uomo contemporaneo, infatti, si trova spesso frastornato, diviso, quasi privo di un principio interiore che crei unità e armonia nel suo essere e nel suo agire. Modelli di comportamento purtroppo assai diffusi ne esasperano la dimensione razionale-tecnologica o, all’opposto, quella istintuale”. Manca il cuore».

L’uomo contemporaneo appare come scisso in se stesso. Da un lato, almeno nella sfera pubblica, sembra privilegiare la dimensione prettamente razionale: le decisioni, le relazioni, sono misurate sul criterio della massima razionalità. In questa linea, una delle sfide più decisive è quella dell’intelligenza artificiale (cf. n. 20). Dall’altro lato, però, emerge con sempre più prepotenza la dimensione istintuale, fatta di passioni incontrollate che spesso dalla sfera privata tracimano nei rapporti con gli altri e addirittura nelle relazioni politiche.

Successivamente, l’enciclica individua in Nikolaj Stavrogin un esempio di questa scissione antropologica. Si tratta di un personaggio dei Demoni di Dostoevskij che emerge in tutta l’ambiguità possibile: è un bell’uomo, aristocratico, affascinante, intelligente, eppure dentro di sé cova passioni inconfessabili, un’indifferenza glaciale, l’incapacità di distinguere il bene dal male.

«Manca il cuore», conclude il Papa. Sembra di risentire la lezione di Pascal, a cui Francesco ha dedicato una bella lettera apostolica Sublimitas et miseria hominis del 2023, ma che stranamente non è mai citato nell’enciclica. Come è noto, Pascal distingue tre ordini in cui ci muoviamo: l’ordine naturale dei corpi, quello degli spiriti, quello della carità (cf. J.-L. Marion, Ciò che vede il cuore). I primi due sono indagabili dalle scienze, naturali ed umane; il terzo ordine è percepibile solo dal cuore. Ma è a partire da questo terzo ordine, che supera infinitamente gli altri due, che possiamo e dobbiamo trovare il senso profondo dell’unità fra corpo e spirito, fra le pretese della scienza e ciò che rende umano l’uomo.

Se questa è la situazione in cui ci troviamo, il riferimento al cuore di Cristo ci può aiutare in modi molteplici. Mi limito a segnalare tre numeri dell’enciclica che vanno in questa direzione, ben sapendo se ne potrebbero citare anche altri.

Il papa sottolinea come il Cuore di Cristo ci libera da un dualismo: «quello di comunità e pastori concentrati solo su attività esterne, riforme strutturali prive di Vangelo, organizzazioni ossessive, progetti mondani, riflessioni secolarizzate, su varie proposte presentate come requisiti che a volte si pretende di imporre a tutti. Ne risulta spesso un cristianesimo che ha dimenticato la tenerezza della fede, la gioia della dedizione al servizio, il fervore della missione da persona a persona, l’esser conquistati dalla bellezza di Cristo, l’emozionante gratitudine per l’amicizia che Egli offre e per il senso ultimo che dà alla vita personale» (n. 88). Vi è qui la denuncia di un cristianesimo ridotto a burocrazia, senza coinvolgimento personale, direi senza “devozione”.

Un altro aspetto interessante concerne un tema caro al nostro patrimonio dehoniano. Papa Francesco vede la riparazione come “costruire sulle rovine”. E scrive: «Insieme a Cristo, sulle rovine che noi lasciamo in questo mondo con il nostro peccato, siamo chiamati a costruire una nuova civiltà dell’amore. Questo vuol dire riparare come il Cuore di Cristo si aspetta da noi. In mezzo al disastro lasciato dal male, il Cuore di Cristo ha voluto avere bisogno della nostra collaborazione per ricostruire il bene e la bellezza» (n. 182).

Infine, una citazione tratta dalla Conclusione del documento. Il Papa ritorna sulla diagnosi dei mali del nostro tempo e vede ancora una volta il Cuore di Cristo come rimedio ad essi: «Oggi tutto si compra e si paga, e sembra che il senso stesso della dignità dipenda da cose che si ottengono con il potere del denaro. Siamo spinti solo ad accumulare, consumare e distrarci, imprigionati da un sistema degradante che non ci permette di guardare oltre i nostri bisogni immediati e meschini. L’amore di Cristo è fuori da questo ingranaggio perverso e Lui solo può liberarci da questa febbre in cui non c’è più spazio per un amore gratuito. Egli è in grado di dare un cuore a questa terra e di reinventare l’amore laddove pensiamo che la capacità di amare sia morta per sempre» (n. 218).

Qualche parola di conclusione

Nella bolla di indizione del Giubileo che stiamo celebrano troviamo un riferimento discreto ma prezioso al Cuore di Cristo: «La speranza (…) nasce dall’amore e si fonda sull’amore che scaturisce dal Cuore di Gesù trafitto sulla croce» (Spes non confundit, 3). La speranza è messa in riferimento al Cuore di Cristo. Non si tratta solo della speranza individuale, ma di quella dell’intero popolo di Dio che cammina nella storia. La speranza, che è sempre anche comunitaria, non si basa infatti su constatazioni sociologiche o su criteri puramente umani, ma sulla certezza dell’amore del Cuore di Gesù.

È a questa speranza che anche noi, come dehoniani, siamo chiamati a guardare. Ma a questa speranza è chiamata anche la società di oggi, se non vuole perdere del tutto il cuore.

p. Stefano Zamboni

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