Riparazione è figura teologica e spirituale che ha riscontrato molta popolarità tra i fedeli nei 250 anni precedenti il Vaticano II, per poi conoscere un rapido declino dopo l’evento conciliare (post hoc e non solo propter hoc).
È stato un tema qualificante nell’esperienza spirituale di p. Léon Dehon, fondatore della congregazione dei Sacerdoti del Sacro Cuore di Gesù (dehoniani, appunto).
I significati con i quali veniva percepita e vissuta nel fervore della devozione al Sacro Cuore hanno visto una forte revisione critica negli ultimi 60 anni,[1] facendo della pars construens un cantiere ancora aperto.
Invitati dalla Provincia Italiana Settentrionale dehoniana, abbiamo dedicato l’annuale settimana di formazione permanente al tema Costruire dalle rovine. Forme e percorsi di riparazione.
Lo spunto era stato offerto dall’enciclica Dilexit nos, che, riprendendo Giovanni Paolo II, propone la riparazione come «costruire sulle rovine» (cf. 181-182). Con il proposito di riparare gli effetti del peccato, un modo distorto di vivere le relazioni con Dio e con il prossimo. Non da innocenti, ma da corresponsabili delle rovine e responsabili della ricostruzione. Non da sani, ma da guaritori feriti. Non da sapienti, ma da affaticati che vogliono intraprendere percorsi sapienti.
Un termine da riparare…
L’approccio scientifico della semantica ci ha posti di fronte alla domanda se sia «il mondo che crea le parole o le parole che creano mondi» e in che modo riparazione e devozione siano reciprocamente connesse.
Anita Prati ci ha introdotti ai vari livelli di senso della parola:
- etimologico, dove al cuore risuona la radice indoeuropea *par- «che contiene un’idea di movimento: portare al di là, produrre, ma anche partorire» oltre che un’eco del suono primordiale pa, tra le prime sillabe che articolano l’esperienza umana della parola (da cui papà);
- letterale, smarrito dalla cultura dello scarto e della fretta, ma riproposto dalla natura (vedi Il bricolage dell’evoluzione di Gould e Vrba);
- figurato, che ha «dischiuso alla parola riparazione le strade del diritto e della teologia»;
- descrittivo, che include la necessità di tempo (il gesto di riparazione chiede di sostare nella serenità di una dimensione distesa e non violenta, ricusa il tutto-e-subito) e creatività come insegna l’arte del kintsugi;
- evocativo, riparare nel senso di fare una riparazione e riparare nel senso di offrire o trovare un riparo. «Imparare dagli alberi. Resina odorosa per sigillare cicatrici, per riparare ferite, rami frondosi per ospitare ogni passero che desideri anche solo un po’ di ombra, un rifugio temporaneo o una vera casa».
Un mondo da riparare
«Un mondo in fiamme», titolava il suo intervento Matteo Marabini, dove le rovine non sono soltanto quelle materiali prodotte dalla guerra e dall’ingiustizia (il contrario di justitia et pax), ma anche quelle profonde della demolizione del diritto e del prevalere della logica violenta della forza.
L’illusione dell’innocenza coltivata dall’Europa rinata dalla guerra ha condotto a cecità nel giudizio. Avere rimosso la parentela condivisa, a livello umano, con le dinamiche del nazismo, oggi come allora, ne ha consentito la riemersione. Si visa pacem para bellum è grande menzogna storica, senza alcuna conferma, tanto meno nell’ultimo secolo.
Un mondo avvolto dalle fiamme del conflitto violento e avviluppato dalla seduzione della guerra, «potenza spirituale di grande fascino», rivestita di messianismo dalla complicità di ideologie tutt’altro che religiose.
Un dialogo da riparare
Il conflitto israelo-palestinese ha smascherato tre elementi: debolezza della politica, fragilità delle istituzioni internazionali, forza preoccupante delle religioni. Ha ripreso vigore lo “scontro di civiltà”, nonostante lo sforzo degli antidoti cercati dopo l’11 settembre 2001.
La riparazione del dialogo interreligioso è «percorso difficile anche per Dio», titolava l’intervento di Brunetto Salvarani.
La lacerazione si è prodotta ora anche sul versante del dialogo tra Chiese cristiane ed ebraismo. Dopo 20 secoli di insegnamento del disprezzo, i cristiani chiamano gli ebrei fratelli, sono passati al dialogo e al dibattito, ma non possono aspettarsi entusiasmo nell’abbraccio.
Ora il dialogo vede aprirsi alcune crepe. Opera di riparazione significa far filtrare da quella crepe una possibilità di luce. Sono richieste fatica, perseveranza, passione perché il lavoro da fare è ancora molto e ora di più, soprattutto a livello teologico (non c’è ancora una teologia cristiana coerente dell’ebraismo), ecclesiologico (la Chiesa non può fare a meno di Israele, Israele può fare a meno della Chiesa) e liturgico.
Una spiritualità da riparare
C’è una spiritualità della riparazione, ma anche la necessità di una riparazione della spiritualità che comporta il superamento della tentazione sbrigativa di buttare via, per le sue ambiguità, un filone che ha oltremodo arricchito generazioni di fedeli, di comunità e perfino di civiltà.
Victor de Oliveira Barbosa ha evidenziato come «negli scritti di Dehon, il termine “riparazione” può evocare, a un primo sguardo, un linguaggio penitenziale e giuridico, quasi una sorta di “risarcimento” dovuto a Dio per l’offesa del peccato. Tuttavia, la sua riflessione teologica e spirituale porta questa parola oltre tale comprensione, aprendola al suo senso più autentico: la riparazione è la risposta d’amore all’Amore ferito, è cooperazione all’opera redentrice di Cristo, è oblazione di sé per il bene della Chiesa e del mondo».
Amore e riparazione sono, nell’esperienza di fede e nel lascito spirituale di p. Dehon, il binomio fondamentale: non c’è amore senza riparazione come non c’è riparazione senza amore. A livello personale, comunitario e fino al livello sociale e politico.[2]
Nel presentare l’enciclica di Francesco Dilexit nos, Lorenzo Prezzi ha collegato il ripensamento della riparazione all’evolvere della devozione. «L’enciclica non sembra prendersi cura di spiegare il collasso della devozione e dei suoi limiti. Per oltre tre secoli la devozione al Sacro Cuore ha condiviso con quella mariana il favore del popolo cristiano. Mi ha sempre sorpreso e interrogato la rapidità con cui è collassata. Dagli anni ’50 del ’900 ad oggi è sostanzialmente scomparsa dall’orizzonte della pratica comune. … Un pregiudizio condiviso la considera residuale. Troppo pesante il portato del dolorismo come condizione da perseguire e non solo da attraversare. Vi sono tracce di spiritualismo laddove la devozione si rifiuta alla riflessione e alla Parola. Il pericolo è infatti quello di trasformare la spiritualità in spiritualismo. Fuga spiritualista non è la paziente ricerca interiore, né l’esercizio della preghiera, della meditazione della Parola, della celebrazione liturgica. Fuga spiritualista è la pretesa del fare da sé, dell’ignorare il confronto con la comunità e con la teologica, spiritualismo è l’irrilevanza del fare in ordine alla propria fede e una sottile ma drammatica negazione della dimensione storica.
Ciò che la devozione al Sacro Cuore ha innestato nel vissuto delle comunità cristiane oltre all’alimentazione della fede ha una duplice faccia. Da un lato l’immagine di Dio come misericordia e amore e dall’altro l’attenzione alla storia. Più che una semplice devozione il culto al Cuore di Gesù costituiva una chiave di lettura del cristianesimo. La genialità della spiritualità del Cuore è legata all’intuizione che il volto autentico di Dio è la misericordia e che una fede matura ha bisogno di una alimentazione mistica e di un trasporto affettivo.
Riparazione è soprattutto solidarietà, costruzione di legami, perdono e riconciliazione. Essa ha operato il passaggio dalla “scuola di disperazione” alla “corrente di speranza” e ha motivato un impegno diretto nelle vicende sociali e politiche».
Il superamento della cristianità sfronda l’espressione pubblica della devozione, ma ne ricupera il radicamento nell’umano.
Una giustizia che ripara
Abbiamo chiesto a Maurizio Millo se la giustizia riparativa sia costituzionalmente fondata. Pur non essendo figura prevista dalla Costituzione letterale ne contiene e traduce lo spirito. Essa promuove
- il riconoscimento della vittima del reato, costretta al silenzio nella giustizia penale;
- la responsabilizzazione della persona indicata come autore dell’offesa, mentre la giustizia retributiva, soprattutto nella pena della reclusione, incoraggia la deresponsabilizzazione;
- la ricostituzione dei legami con la comunità, obiettivo primario della Carta fondamentale.
Tutto ciò è fondato sulla Costituzione e lo è in modo profondo e sostanziale.
Silvia Paris e Silvia Spallanzani hanno riportato testimonianza dall’interno del progetto Daimon, condotto dal CEIS con persone responsabili di maltrattamenti domestici.
«In molte situazioni la casa, da luogo di riparo, diventa luogo di paura, violenza, ferite. C’è risonanza reciproca tra riparazione e riparo. Non andiamo a riparare persone, ma a ripristinare la protezione offerta dalla casa. Per chi ha subito violenza il trauma resta ma il ricupero è molto più veloce dove interviene un percorso riparativo».
Laddove i percorsi di giustizia mirano a ricostruire dalle rovine il cambiamento è possibile ed è reale.
La riparazione ricupera anche la dimensione affettiva, sua e della giustizia. Della «giustizia degli affetti» ci ha parlato Rinaldo Ottone. C’è una giustizia atto di ragione, che ha il pregio di essere veloce ed efficiente, e una giustizia fatta di relazioni sane e sanate, più lenta ma più efficace. Perché le relazioni si giocano spesso e per molta parte sottobanco: in ogni contenzioso c’è un mondo di emozioni e affezioni sommerse, dal peso spesso maggiore dell’oggetto del contendere.
Non siamo statti abituati, almeno nel nostro Occidente apollineo, ad ascoltare il mondo degli affetti eppure è così determinante nel plasmare le relazioni.
Siamo gli unici esseri che sperimentano la esogestazione: venire al mondo senza essere completi e questo cambia il mondo delle relazioni. La nostra gestazione è in parte biopsichica, ma in misura maggiore relazionale. Tutto ciò che è umano ha una base istintiva molto debole. Tutto ciò che è umano lo dobbiamo imparare e l’apprendere è costitutivo.
Abbiamo sviluppato per secoli una teologia razionale, con sospetto verso la componente affettiva. Quanto abbiamo studiato in teologia la parte affettiva di Dio? Nella scuola educhiamo la ragione e non siamo capaci di educare gli affetti. La partita della vita e della storia si gioca sugli affetti.
Puntare sulla riparazione significa restituire la dovuta considerazione alle relazioni e agli affetti.
Dall’esperienza all’esperienza
Marco Mazzotti ci ha sollecitati e accompagnati a dare testimonianza personale di riparazione vissuta da soggetti o destinatari, nella vita reale o nel simbolo.
Emerge dall’esperienza che la riparazione non è un optional, ma una dimensione indispensabile della maturità. Perché una persona sia adulta non basta diventi responsabile. La consapevolezza dell’errore non è automaticamente riparazione.
Oltre alle dimensioni biologica, giuridica, sociale, piscologica, la riparazione come dinamica nelle relazioni presuppone e sviluppa una quinta dimensione, quella creativa, proprio perché si ha a che fare con persone, non con oggetti né solo con eventi.
Alla maturità umana la responsabilità non basta e un eccesso di responsabilizzazione può condurre a un senso di colpa bloccante. La riparazione non è introversa né retroversa ma apre a possibilità di futuro.
Gli obiettivi raggiunti dalla Settimana sono stati principalmente due, intrecciati fra loro:
- riscatto della riparazione da una dimensione intimistica e consolatoria: la riparazione ha a che fare con il male dell’uomo e del mondo, ed è dunque affare serio perché è in gioco la vita dell’uomo e del mondo e il dono della vita del Figlio di Dio per la salvezza dell’uno e dell’altro;
- ricupero del valore della devozione come espressione genuina e necessaria all’esperienza di fede: l’esperienza di fede è esperienza di reciprocità fra Dio e l’uomo e la relazione di amore che viene proposta e sperimentata (cosa significa mistica se non esperienza del mistero?). Non è possibile rinchiudere la devozione in un’espressione intimistica, edulcorata, eterea perché non è genuina se non comporta il dono di sé (devotio)[3] come risposta al dono di sé di Dio e come offerta di se stessi per la salvezza del mondo.
In questo senso si può dire, in conclusione, che non c’è riparazione senza amore (intuizione di Dehon), ma nemmeno c’è amore sostanziato se non c’è riparazione, cioè ricostruzione generativa e creativa delle relazioni.
Unico riparatore è Cristo, che trova carne nella riparazione di cui siamo capaci noi. Cristo, la cui missione è che, in obbedienza al Padre, «nessuno vada perduto» e «tutto venga in lui ricapitolato».
«Anche il campanile di Giotto risorgerà», diceva un “mistico” La Pira. Il mondo delle relazioni personali, sociali, ambientali: «tutto chiede salvezza» e tutti ne siamo capaci.
Marcello Matté
Pubblicato su SettimanaNews il 21 settembre 2025
[1] Basti ricordare che nella prima bozza delle Costituzioni della congregazione dehoniana, riscritte in seguito al dettato conciliare, il termine era stato espunto.
[2] Si veda i Marco Bernardoni, «Dehon: democrazia, popolo, Regno di Dio», in SettimanaNews 27 agosto 2025.
[3] Vedi Anita Prati, «“Amore per amore”: la devozione in papa Francesco», in SettimanaNews 28 agosto 2025.
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