Fr. Renato Cesaro è tornato al Padre

Nato il 16 maggio 1946 a Musile di Piave (provincia di Venezia e diocesi di Treviso) era stato battezzato il 2 giugno 1946, una data significativa nella storia italiana, nella chiesa parrocchiale del paese ed ivi cresimato il 25 settembre 1952 dunque in età giovanissima.

Dopo la prima formazione scolastica aveva conseguito un diploma professionale in falegnameria e tappezzeria.

Ricevuto postulante ad Albisola il 19.03.1964 e novizio a Bolognano il 28.09.1964, sempre a Bolognano aveva emesso la prima professione il 29.09.1965. Le altre successive rinnovazioni avvennero ad Albisola (1966-1967) e a Genova(1967-1968). A Genova aveva lavorato in segreteria, una sorta di primo apprendistato in un settore che lo avrebbe poi impegnato per decenni allo Studentato.

Trasferito a Bologna e destinato alla comunità di via Nosadella, vi aveva rinnovato i voti negli anni 1968-1970 ed emesso la Professione perpetua il 28.09.1971. Erano quelli gli anni in cui il Centro Dehoniano andava ampliando la sua fisionomia specifica in ambito editoriale, Fr. Renato vi rimase a lungo, spendendosi nel lavoro di magazziniere, svolto praticamente senza orari, prestandosi altresì per molteplici attività per la comunità e il Santuario in qualità di sacrista e custode nonché per la Casa editrice che cominciava ad avere alcune dépendances nell’edificio delle Grafiche dehoniane(1968-1975).

Destinato successivamente allo Studentato (era il 1975) come aiuto economo e addetto alla segreteria, mentre attendeva alle mansioni che gli erano state affidate dall’Istituto, cominciò a … frequentare il mercato, dove si fece benvolere e dove era in qualche modo considerato una sorta di intermediario con i monasteri di Bologna, soprattutto quelli di clausura, le case della carità, il seminario e le tante situazioni di bisogno che potevano avvantaggiarsi del di più che restava al mercato alla fine della settimana e diventava, anche grazie a lui, Provvidenza per tante necessità e bisogni.

Il capitolo carità avrà costituito indubbiamente una sorta di lasciapassare al momento del rendiconto giunto per lui allo scadere di quella che il salmista definisce “summa annorum nostrorum septuaginta» e solo «si validi sumus, octuaginta». Da un lato indubbiamente la sua generosa e arruffata attività ha davvero consentito di dare da mangiare a chi era affamato e non solo, ma ha in qualche modo concorso a che il suo spendersi per questo servizio non tenesse sempre in considerazione il bene suo personale, che anche il comandamento richiama: ama il prossimo tuo come te stesso.

Forse il Signore gli avrà tirato le orecchie il pomeriggio dell’ultimo giorno di carnevale di questo anno della Misericordia, che doveva tra pochi mesi segnare la summa dei suoi anni: settanta appunto.

Il Signore, abbiamo detto, perché i superiori, per la paterna cura che hanno dei loro sudditi, come dice Dehon nel Direttorio, ci avevano a loro volta provato in varie occasioni. Per tralasciare i viventi che magari avrà considerato severi per le limitazioni postegli a tutela della sua salute, riprendiamo un’esortazione paterna di p. Cavazza che era stato suo superiore allo Studentato, quando già era diventato Provinciale e, nel novembre 1995 durante gli esercizi spirituali, gli aveva scritto da Capiago sollecitandolo ad avere riguardo della sua salute:

«Tutti riconoscono il tuo lavoro enorme, fatto bene e con continuità. Nelle ultime vacanze estive hai fatto, e quasi sempre da solo, un lavoro enorme, ammirevole, ma non hai potuto concederti neppure un giorno di riposo. La tua giornata è troppo intensa; non ti concedi neppure il tempo per mangiare in pace. Non può continuare così. A Boccadirio lavori per tre e così non hai neppure la domenica per respirare, per pensare un poco a te stesso. Sei encomiabile per il “lavoro del mercato”. Il bene che tu fai solo il Signore sa misurarlo… Parli poco e realizzi molto. È un vero servizio di carità, ciò non toglie però che rimanga un servizio estenuante… Dovresti aver da fare solo questo! A coronamento di tutto, la segreteria ti impegna le serate e gran parte della notte…».

In aggiunta la lettera aveva un’esortazione con un richiamo all’umiltà di farsi curare, perché già allora non mancavano segni allarmanti di malessere fisico, che si traduceva in qualche insofferenza nel tratto verso quanti lo avvicinavano…

«Curati» è stato il verbo esortativo insistito di quel provinciale e degli altri, dei superiori della comunità e degli amici, dei confratelli e delle religiose che frequentava nei suoi giri di distribuzione. Negli ultimi tempi si era fatto più attento, seguito con affettuosa vigilanza da questo o quel confratello, dalla comunità e da quanti lo conoscevano e apprezzavano.

Non deve aver fatto fatica a intuire che la sua ora era prossima in occasione dell’ultimo ricovero al Bellaria, dell’ultima visita di sua madre e dei nipoti. Quando l’ultimo giorno, alle quindici, il Signore è passato, con lui c’erano appena stati p. Enzo Brena, p. Giacomo Cesano e una cugina di Torino ed erano presenti p. Gian Paolo Carminati, la “Mimma” e il Padre Provinciale.

Erano le 15 del 9 febbraio, hora nona, come dice un inno liturgico «L’ora nona ci chiama/ alla lode di Dio:/ adoriamo cantando/ l’uno e trino Signore.», cui aggiungono compimento l’antifona e il primo salmo «Mi conforti il tuo amore, o Dio, secondo la tua promessa. – Le tue mani mi hanno fatto e plasmato; */    fammi capire e imparerò i tuoi comandi./ I tuoi fedeli al vedermi avranno gioia, */perché ho sperato nella tua parola…» (Ps 118).

Dopo la Messa esequiale presieduta a S. Maria del Suffragio da p. Oliviero Cattani e concelebrata da una trentina di confratelli, presenti la madre, familiari, amici, tanti fedeli e vari gruppetti di religiose, la salma di fratel Renato ha trascorso un ultima notte nella chiesa che lo aveva visto presente, ogni fine settimana, ad almeno tre Messe.

Il mattino di Venerdì è stato inumato nella nostra cappella alla Certosa di Bologna.


Omelia alla Messa esequiale di fratel Renato Cesaro

11 febbraio 2016

Siamo qui, con Gesù risorto, per celebrare nell’eucaristia la nostra gratitudine per il dono di fratel Renato, la cui vita è giunta al suo compimento terreno. Non c’è miglior saluto e miglior ringraziamento di quello celebrato nella fede in Cristo, primizia della nostra risurrezione, nel quale riconosciamo la meta del cammino terreno di Renato e nostro. Il momento doloroso del commiato trova la più adeguata consolazione nel mistero di Vita che celebriamo.

Le parole dell’apostolo Paolo ci mettono in presa diretta con il mistero di amore misericordioso che sta al fondo della nostra vita: nulla «potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore». Malattia, difficoltà, fatiche, morte sfidano la nostra fede, ma «nulla potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore». E proprio nelle parole di Gesù riconosciamo il fondamento della nostra fede e della nostra speranza: «Tutto ciò che il Padre mi dà, verrà a me: colui che viene a me io non lo caccerò fuori, perché sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato… che io non perda nulla di quanto mi ha dato, ma lo resusciti nell’ultimo giorno». Dio ci custodisce, non ci perde mai di vista. Noi forse lo perdiamo di vista, ma Lui no: Dio ci custodisce, ci vuole “vivi” di Lui!

Fratel Renato doveva avere una viva esperienza di questa premura paterna di Dio e del senso provvidenziale delle vicende umane se, nel breve riassunto delle tappe principali della sua vita, scrive – con un po’ di ironia –: «Nel 2000 andai al Creatore e fui respinto al mittente con quattro mesi di ricovero all’ospedale Maggiore». Chi ha vissuto a lungo con lui sa bene che quel periodo di malattia segnò un profondo cambiamento nella sua vita. Un cambiamento interiore che ha messo nuovo ordine nella sua vita e di Dio sempre più al centro. Un cambiamento interiore che bisognava intuire tra le pieghe del suo vissuto, perché un uomo di poche parole come lui non lo raccontava facilmente ad altri.

Sarebbero tantissime le scene di vita, episodi particolari, battute, ricordi da raccontare, e il suo commento ricorrente quando c’erano problemi: «ne vedremo delle belle!»…

Voglio solo ricordare un aspetto che lo rappresenta, evidente per chi lo ha conosciuto lungo i suoi quarantun anni di presenza allo Studentato: il suo lavoro, il suo darsi da fare per gli altri nella carità, con uno stile davvero unico. Lo sappiamo bene noi confratelli, e lo sanno bene le tante comunità di suore che hanno potuto godere della sua attenzione e della sua cura per le loro necessità materiali. Una carità sollecita, fedele e regolare era l’espressione più chiara della sua volontà di donare la vita a Dio e ai fratelli, come a più riprese rivela nelle riflessioni da lui scritte, soprattutto nei primi tempi della sua vita consacrata. Dietro una facciata di uomo burbero – lo sappiamo – si nascondeva un cuore capace di sciogliersi di fronte a chi era nel bisogno.

     Il suo esempio di regolarità nel servizio credo sia stato occasione di crescita per molti studenti passati dallo Studentato, così come le serate serene passate in camera sua a far chiacchiere davanti a un grappino o un bicchierino del “suo” Fiordibosco (da lui fatto, a Boccadirio, per 33 anni!). Ma anche un rapporto stile “carta vetrata” di Renato era, per certi versi, un aiuto per i confratelli giovani e meno giovani: ricordava loro che avere buoni ideali in testa o sulla bocca è cosa buona, ma ancor più importante è metterli in pratica nelle piccole cose della vita quotidiana.

Sappiamo tutti per esperienza che i difetti e i limiti di carattere sono gli aspetti che percepiamo per primi in una persona. Ma quegli stessi limiti sono anche provvidenziali spiragli che si offrono alla nostra capacità di accoglienza, ci permettono di intravedere e cogliere pazientemente il positivo del fratello che non è immediatamente percepibile agli occhi. Rimane con noi, nel nostro ricordo riconoscente, l’ordine e la precisione regolare con cui Renato eseguiva i suoi tanti servizi: ordine che, in più di un’occasione, richiamava anche ai confratelli. Forse ai nostri occhi apparivano, nella loro regolarità, come rituali eccessivi, ma erano manifestazione della sua fedeltà, oserei dire la silenziosa “celebrazione” quotidiana del suo amore per il Signore che passava attraverso la comunità e tutto ciò che aveva a che fare con i confratelli. Erano l’espressione dei suoi talenti, la rivelazione del suo valore personale, aspetto tanto delicato nella sua percezione di sé, che senz’altro avrebbe meritato migliori attenzioni e conferme da parte di noi confratelli.

In comunità, tutti siamo rimasti colpiti dalla scelta di Renato di entrare in ospedale senza altro bagaglio che il suo breviario e un po’ di biancheria. Non un libro, non riviste, niente cellulare o televisore da noleggiare. Penso fosse una scelta significativa delle priorità a cui era pervenuto durante il tempo della sua malattia e, anche se non si aspettava un declino così rapido delle sue condizioni, era una sorta di presentimento che non poteva perdersi in altri interessi o distrarsi con altre amenità. Tutto il suo tempo lo passava nel silenzio, accettando le terapie, pregando la liturgia delle ore, o accogliendo – finché ha potuto – chi lo andava a trovare. Anche dal suo letto, per quanto poteva, ha messo ordine nelle sue cose personali e nelle tante cose della comunità che lui seguiva, attraverso le indicazioni date a chi di noi lo andava a visitare.

Mi sembra di poter dire che, negli ultimi tempi più che mai, il suo mondo era questo: Dio e la comunità. Gli ultimi giorni della sua vita ce lo hanno fatto comprendere ancora di più. Anche quando, dieci giorni fa, mi diceva: «siamo alla fine, Enzo!», non lo diceva con un’espressione sfiduciata, ma con lo sguardo interrogativo e inevitabilmente impaurito di chi non sa come sarà l’esperienza di passaggio che l’aspetta, ma anche, per come era fatto Renato, con il dispiacere di non aver fatto ancora abbastanza.

Da questo punto di vista, dentro di lui batteva il cuore di un uomo che voleva fare sue le parole del Cristo appena ascoltate: «sono venuto per fare la volontà di Colui che mi ha mandato». E, poiché Renato era un uomo di poche parole, mi sembra giusto che siano le sue parole ora a parlare a ciascuno di noi e svelarcelo, forse, come abbiamo mai avuto l’opportunità di ascoltarlo.

Sono parole scritte parecchi anni fa, immagino durante gli esercizi spirituali, ma che ci dicono lo spirito con cui ha cercato di dare senso alla sua vita quotidiana.

Scriveva: «Vivo con entusiasmo e serena letizia la mia consacrazione. Ho voluto donare a Dio il meglio di me stesso: libertà, amore, vita, per essere nella Chiesa un segno dei valori più veri, reali, tangibili della fede e della carità di Cristo. Vorrei che molti giovani riuscissero anche oggi a capire il significato misterioso e intimo dell’appartenere a Cristo, la priorità di un impegno che dura al di là delle strutture che possono mutare. Anche se queste sono inadeguate (quante strutture non tengono più nella società!) ciò che resta immutata e sostanziale è l’invasione di Cristo nel più profondo del mio essere; è la scelta quotidiana di un più amore nell’aderire a Colui che ha detto: “Se qualcuno mi ama rinunci a se stesso, prenda la sua croce e mi segua”. Ho scelto io questo stato di vita, liberamente e coscientemente, rispondendo all’invito di colui che per primo mi ha amato. Non detesto il mondo, anzi lo amo e sono totalmente lontano dal credermi un privilegiato, un prescelto. Tutto il mio impegno è di lasciarmi assimilare dallo Spirito santo per realizzare con lui il dono di un servizio ai fratelli. Infatti la mia giornata è coerenza a una realtà che mi accomuna a loro nel lavoro, nel sacrificio, nella donazione amorosa. Trovo estremamente valido aver dato tutto per il Tutto: la testimonianza che investe tutte le realtà terrene, il lieto annuncio di “risurrezione” dentro la pratica di povertà, castità e obbedienza vissuti come segno delle realtà future. Forse questo nostro mondo, sempre più immerso nel suo materialismo e schiavo del piacere, m’irride e mi commisera, ma se è vero che non c’è prova d’amore più grande di colui che sacrifica la vita per i suoi amici, i sentimenti si invertono. Questo è il senso della mia consacrazione, dopo aver aderito all’invito di seguirlo, e vorrei gridare a tutti la mia felicità  con il versetto del salmo 116: “Continuerò il mio cammino tra gli uomini sotto lo sguardo di Dio, per sempre”».

P. Enzo Brena

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