Settimana dehoniana: Una storia che non c’è

Appunti su un patrimonio iconografico
che non si è mai sviluppato

L’idea che si possa parlare di patrimonio iconografico presuppone l’ipotesi che esista la volontà di trasmettere un insieme coerente di immagini a cui nel tempo si possa dare un valore di un certo tipo: culturale, decorativo, teologico. Per quanto riguarda l’insieme delle immagini presenti nelle nostre case relative al Sacro Cuore, pare davvero molto difficile parlare di patrimonio, vista la relativa povertà di numero e di qualità, salvo qualche rarissima eccezione di cui diremo. Perché nelle nostre case si è diffusa un’ iconografia spesso ripetitiva e che rispondesse all’unica esigenza di occupare spazi e fornire qualche labile sostegno alle funzioni liturgiche? Se prendiamo il caso delle fondazioni di Albino e Bologna, possiamo facilmente rispondere che l’esigenza primaria fosse quella di fornire le case di formazione di immagini chiare e immediatamente spendibili nel sostegno alla formazione spirituale dei candidati all’ingresso in Congregazione (fig.1-2).

Ci troviamo infatti in un periodo, la prima metà del ’900, in cui, ormai, l’iconografia classica del Sacro Cuore, quella diffusa in ambito gesuitico a partire dall’esemplare esecuzione batoniana della chiesa del Gesù del 1767 (fig. 3), ha decisamente virato verso la forma dell’incoronazione del Sacro Cuore, slittamento documentato dall’istituzione della solennità di Cristo Re nel 1925. Di questa sovrapposizione sentiremo sicuramente parlare nelle prossime relazioni, certo è che dal punto di vista dell’immaginario iconografico ha costituito un passaggio decisivo dalla riproduzione descrittiva dell’immagine del Sacro Cuore, secondo le indicazioni contenute nelle rivelazioni di S. Margherita Maria Alacoque, ad un’interpretazione in chiave sociale e politica: slittamento avvenuto in maniera quasi impercettibile e recepito a livello iconografico come ovvia conseguenza dell’utilizzo della devozione al Sacro Cuore in chiave antimodernista. La pala posta nell’abside della cappella dello Studentato di Bologna del pittore polacco Cichon (fig. 4), documenta con chiarezza questo passaggio: se nel quadro di Batoni, prevale l’idea del cuore che, avvinto dalle spine del peccato, viene offerto e continua ad ardere per la salvezza del mondo, nell’opera bolognese vediamo che la corona di spine è tornata sulla testa del Signore Gesù che ci viene presentato appunto come un re in trono, al quale porre l’omaggio dell’adorazione. Scettro e corona li troviamo posti ai suoi piedi e presentati dalle mani di alcuni angeli in devota preghiera. Il cuore non viene più offerto, viene semplicemente messo in mostra, come se si aprisse un sipario e si offrisse la possibilità di una visione, quella di fare breccia nel mistero della profondità di Dio. L’atteggiamento di devota adorazione suggerito dagli angeli diventa misura di ciò che viene richiesto ai chierici in formazione e a dei veri Sacerdoti del Sacro Cuore: la volontà di riconoscere l’unica regalità possibile, quella del Signore Gesù, e la sua volontà di manifestarsi nell’eucaristia, non a caso la pala è posta in diretta continuità con l’apparato architettonico dell’altare e del ciborio. Lo stile volutamente arcaizzante, fa il verso al mondo medioevale, in un sincretismo abbastanza paradossale tra l’arte bizantina e stilemi gotici, nel tentativo di ripescare direttamente in quel mondo un’idea di regalità immediatamente ricollegabile alla sfera del divino. Accettare la piena regalità del Signore Gesù sul mondo della propria interiorità apre alla possibilità della costruzione di una società in cui possa regnare Dio. Siamo all’interno di un discorso spirituale, principalmente rivolto a chi sta facendo la scelta di consacrare interamente la propria vita a Dio, discorso che necessita di essere chiarito in maniera più evidente quando sia rivolto in modo più generico all’intero popolo di Dio.

Tra gli anni venti e trenta del ’900 si impone nell’arte italiana una forma di ritorno all’arte classica, in netto contrasto con l’affermarsi delle avanguardie. Siamo all’interno di una fase culturale di reflusso, dovuta anche alla crisi sociale e politica dell’immediato dopoguerra, istanza che sarà fatta propria in chiave nazionalistica dal fascismo, ma che non si svilupperà a sostegno diretto della nascente macchina culturale del regime. Siamo di fronte, piuttosto, ad una cosciente presa di distanza dal tentativo futurista di vivere l’arte come strumento di lettura e trasformazione del mondo attraverso la rappresentazione di forme simboliche della tecnologia meccanica ed elettronica, per favorire invece un ragionamento del tutto contrario, basato fondamentalmente sulla consapevolezza che il mondo sta attraversando un tempo saturo di immagini, tanto da rendere inutile una ulteriore operazione di accumulo, quando, invece, si sia resa necessaria un’operazione di lettura a ritroso di tutto il patrimonio figurativo, lettura libera fatta di mescolanze e ibridazioni, capace di ridare significato agli oggetti comuni presi nella loro quotidianità. Una proposta di questo genere, sviluppata nella sua forma più alta attraverso l’arte originaria di De Chirico  e nella poetica Metafisica (fig. 5), troverà sviluppi spesso banalizzanti. Il tentativo di De Chirico, prima, e di altri grandi artisti dopo di lui, come Carrà e Morandi (fig. 6-7), in forme anche molto differenti, fu quello di restituire un profondo senso simbolico alle forme del quotidiano, cercando di condensare significati nuovi attraverso un modo inconsueto di ricomporre il patrimonio iconografico tradizionale. La pittura e l’arte, in generale, hanno bisogno del proprio linguaggio per potersi esprimere a pieno e del recupero più alto della propria tradizione: per raccontare al meglio il senso di disagio dell’uomo contemporaneo rispetto al mondo e alla propria interiorità, non c’è niente di più convincente del linguaggio artistico e dell’iconografia classica, utilizzati in maniera nuova per ottenere effetti di assoluto spaesamento. Agli artisti veri non rimane altro da fare che ripercorrere a ritroso la storia dell’arte, attraversarla come se si trattasse di passare da una stanza all’altra, cercando di individuare quei momenti decisivi che hanno costituito l’ossatura del linguaggio artistico. Si ritorna indietro fino al ’400 alla scoperta del mondo prospettico, o al periodo di Giotto, dove si riscopre una spazialità davvero monumentale e si individua in questi momenti della storia dell’arte italiana i passaggi chiave per restituire l’arte alla propria autonomia. La maggior parte degli artisti degli anni ’20 del Novecento vive una fase di richiamo all’ordine dove alcuni riescono nell’intento di ridefinire un linguaggio aulico e riflessivo, in alleanza con i valori antichi, capace di restituire un’epica del quotidiano un realismo metafisico, ovvero, alla lettera, un surrealismo, esteso a riqualificare, quasi per un colpo di bacchetta magica, ogni aspetto della vita contemporanea[1].

Saranno artisti come Sironi (fig. 8), i così detti appartenenti al gruppo Novecento, a codificare un nuovo linguaggio monumentale che avrà grande presa sull’immaginario artistico degli anni successivi, soprattutto attraverso la realizzazione di imponenti cicli murari (fig. 9).  L’intento principale di questi artisti era quello di restituire dignità e autonomia all’arte di fronte alla possibilità di definire un modo di porsi nei confronti dell’ambiente circostante, valorizzando in particolare l’ambiente urbano: un’arte metafisica e classica, dunque, ma non in senso spirituale. Un’arte priva di intenti religiosi, almeno evidenti, dove il metafisico non fa riferimento ad una dimensione verticale, ma semplicemente ad una questione di spostamenti laterali, nel tempo e nello spazio, di forme e tecniche, spostamenti capaci di restituire interesse alla realtà. A partire da queste idee, ma soprattutto da una lettura estremamente semplificata della congerie culturale del tempo, la cultura cattolica sembrò trovare un punto d’appoggio nelle proposte artistiche di questi anni, o meglio nelle espressioni più semplicemente codificabili di esse: una certa idea di monumentalità grandiosa e arcaizzante, l’idea di recuperare nell’antico, in particolare nell’arte quattrocentesca vista ancora come pienamente cristiana, l’insieme dei valori di riferimento, non poteva non esercitare un fascino assoluto sui committenti ecclesiastici. Le vicende costruttive e decorative della nostra basilica di Cristo Re a Roma (fig. 10) si inseriscono in questo contesto: un contesto ulteriormente complicato dalle vicende culturali legate all’affermarsi del fascismo. Senza addentrarci nella questione delle scelte architettoniche riguardanti la vicenda realizzativa della basilica ad opera di Marcello Piacentini, possiamo limitarci al discorso di nostra competenza e prendere in considerazione due delle opere decorative più importanti: il Sacro Cuore nella lunetta sopra il portale di ingresso e l’enorme Cristo re rappresentato nel catino absidale. Entrambe le opere sono di artisti importanti appartenenti alla corrente novecentista di cui abbiamo parlato, e nell’insieme formano un messaggio coerente rispetto a quanto stiamo argomentando sulle forme rappresentative del Sacro Cuore. Arturo Martini esegue tra il 1933 e il 1934 il Saro Cuore benedicente posto in rilievo nella lunetta del portale maggiore della basilica, secondo le indicazioni fornite dall’architetto Piacentini (fig. 11-12): la carica spirituale presente nell’opera, documentata peraltro dall’autentica ricerca religiosa di Martini, viene mitigata dall’intento didascalico ed esortativo: il cuore sembra quasi ormai un elemento aggiuntivo, quasi secondario, potremmo dire posticcio (fig. 13).

La fissità della figura e la monumentalità paludata sottolineano l’elemento fondamentale dell’ampio gesto di benedizione: siamo ormai lontani dall’immagine generata all’interno di un discorso mistico, immagine rivolta all’interiorità e alla preghiera. Qui prevale la dimensione oratoria, l’intento di catechizzare i fedeli sulla volontà di porre la dimensione regale di Cristo al centro dell’organizzazione ecclesiale e di conseguenza anche sociale. Il discorso simbolico risulta fin troppo chiaro ed esplicito: le forme dell’arte classica sono state ormai recuperate in chiave prettamente monumentale e anche le dissonanze stilistiche, proprie di un grande scultore come Martini, come il lieve allungarsi della figura del Cristo e la totale discrepanza dimensionale dei due piccoli angeli, non servono a salvare l’opera da una eccessiva magniloquenza, di cui le scritte in lettere capitali ne sono un’ulteriore riprova. Solo la regalità di Cristo può portare pace nella società, vista l’intitolazione complessiva della basilica. Idea chiara ed esplicita, che non ha bisogno di particolari sottolineature, se non di una piena e totale adesione: non è necessario ricercare effetti particolari. L’arte può e deve tornare ad un ruolo puramente descrittivo dei dettami teologici: figure chiare, ben codificate e a servizio dell’elaborazione magisteriale. Se la devozione al sacro Cuore ha lasciato spazio per secoli ad alcune varianti iconografiche che hanno permesso anche letture più spiritualistiche a volte perfino al limite della correttezza dogmatica, qui il discorso tende a chiudersi: il cuore sparisce, prevalgono i segni di una regalità dichiarata, prelevati direttamente dall’idea universalistica medievale, proprio come nel grande Cristo in trono di Achille Funi, posto nel catino absidale (fig. 14). Una figura perfino eccessiva nel suo voler essere chiara ed esplicita, una figura che rimanda immediatamente all’idea di ordine e potenza, ottenendo peraltro, un effetto di staticità al limite dell’imbarazzante: chi non ricorda i grandi piedi in primo piano, ma soprattutto chi non ricorda il bisogno di sottolineare il tutto con le scritte capitali sulla fascia sovrastante, parole che non ammettono dubbi sulla possibile interpretazione: Rex sum Ego. Dal desiderio di regnare sui cuori all’immagine di un Cristo che manifesta il proprio potere e diventa espressione del ritorno ad istituzioni politiche nuovamente cristiane il passo sembra essere breve, anche se segnato da una realtà storica ben differente. L’iconografia del Sacro Cuore finisce per essere assorbita dall’iconografia di Cristo Re, attraverso la scelta consapevole di favorire tutte e solo le forme artistiche che si ricollegano in maniera immediata ad un passato cristallizzato e assolutizzato nell’idea di una società realmente e perfettamente cristiana. Il dialogo con ogni forma artistica che intenda porsi a confronto con la modernità risulta impossibile: è accettabile solo un’arte narrativa, figurativa, che si pone a servizio della parola della Chiesa, quella del dogma, non certo quella del Vangelo, basti pensare che proprio il Cristo Re di Funi tiene in mano un Vangelo chiuso, a differenza dei grandi Cristi Pantocrator della tradizione bizantina e medievale (fig. 15).

Le vicende della seconda guerra mondiale e il rifiuto di tutte le forme culturali ed espressive in qualche modo riconducibili alle idee di nazionalismo propagandate in età fascista, segnarono la fine della sovrapposizione iconografica tra Sacro Cuore e Cristo Re: la devozione al Sacro Cuore poteva tornare a quella funzione legata principalmente al tema dell’espiazione e della riparazione, già sottolineata a partire dal 1929, anno in cui viene promulgata la nuova liturgia per la festa del Sacro Cuore. Se in quegli anni però ci troviamo ancora dentro al quadro che abbiamo cercato di delineare nelle pagine precedenti, ora, dopo le tragedie della guerra, di fronte alle rovine della distruzione, parlare di riparazione ed espiazione ha tutto un altro significato.  Se la devozione al Sacro Cuore deve principalmente riprendere il proprio significato riparatorio rispetto ai mali e alle tragedie scaturite dalla modernità, essa non perde il proprio legame con la volontà ecclesiastica di ribadire la necessità di restaurare una società veramente cristiana per ottenere una pace duratura. Lo deve fare però in maniera autonoma, ricercando anche un’iconografia nuova che in realtà non saprà sviluppare: la storia delle produzioni iconografiche nelle nostre case ce lo sta a dimostrare (fig. 16). Assistiamo ad uno stanco ritorno alle iconografie consuete, riprodotte in maniera sistematica e assunte quasi in maniera irriflessa (fig. 17). Possiamo anzi sostenere che neppure la rielaborazione teologica a cui sarà sottoposta l’intera vita della Chiesa a partire dal Concilio Vaticano II farà cambiare sostanzialmente le cose. Senza entrare nella discussione circa le tendenze emergenti, in vari settori del mondo cattolico, che ritenevano il culto per il Sacro Cuore di Gesù inadeguato alle necessità della Chiesa nei tempi presenti e senza voler affrontare qui il discorso su tutti i tentativi post conciliari di risignificare teologicamente la devozione al sacro Cuore alla luce della centralità dell’atto eucaristico[2], possiamo dire che, per quello che riguarda il nostro discorso, assistiamo ad un periodo davvero povero, di cui la storia recente della nostra Congregazione e Provincia sembra rendere testimonianza. Il discorso iconografico sembra essere stato totalmente marginalizzato: ci si è accontentati di produrre immagini, senza credere alla possibilità che l’arte possa dare il proprio contributo allo sviluppo teologico, senza esserne semplicemente pendant. Il discorso del recupero delle fonti alle origini della storia della Chiesa, la centralità restituita al testo biblico, condizioni necessarie per il rinnovamento dell’elaborazione teologica, hanno costituito anche per noi dehoniani le basi su cui rielaborare le fondamenta della devozione al Sacro Cuore: di particolare importanza, naturalmente, il recupero della centralità eucaristica.

Di tutto questo non troviamo praticamente traccia nelle immagini che abitano le nostre case. Ci si è concentrati, ma questa è una realtà vera per la chiesa nella sua interezza, sul testo scritto, sulle parole, la predicazione, dimenticando che da sempre le immagini hanno interagito con la teologia e la devozione, fornendo un quadro di riferimento vivo per la fede di intere generazioni di credenti. Si è finito per riservare un posto marginale alla devozione, credendo che per essa fosse sufficiente il ripetere all’infinito le stesse forme e le stesse pratiche, dimenticando che una seria rielaborazione teologica richiede sempre l’attuazione conseguente di nuove pratiche e di nuove immagini che ne possano sostenere lo sviluppo, soprattutto nella quotidiana pratica dei fedeli. Potremmo dire che ci è mancato il coraggio di applicare anche alle rare commissioni artistiche le convinzioni acquisite dopo il Concilio. Ma soprattutto ci è mancata la capacità di sostenere e stimolare la ricerca artistica nello sperimentare nuove forme per raccontare e dire una devozione ancora vitale e possibile. Proviamo a prendere in considerazioni alcune opere realizzate proprio a cavallo del Concilio e presenti nelle nostre case o nelle nostre chiese. Si tratta di opere realizzate in maniera estemporanea e che non rispondono in alcun modo a progettualità più ampie rispetto a quelle di rendere conto di bisogni decorativi immediati. La realizzazione della chiesa del Sacro Cuore a Trento viene portata a termine nel 1963. La parte decorativa viene affidata, in anni di molto successivi, a Luciano Carnessali, artista e prete della diocesi di Trento. Sicuramente più innovativo e aggiornato sul dato della scultura, porta a termine il bel portale di ingresso, ma soprattutto, per quel che ci riguarda, una rappresentazione del Sacro Cuore in mosaico sulla lunetta posta proprio sopra al portale principale (fig. 18): l’iconografia non presenta nulla di nuovo se non una evidente umanizzazione del Cristo che si lascia quasi toccare da tutti coloro che dimostrano di sapere amare e la sottolineatura che tutti e sette i sacramenti scaturiscono dalla grazia che è fondamentalmente apertura del cuore di Dio per gli uomini. Anche dal punto di vista dell’esecuzione ci si attesta su forme stilistiche piuttosto battute e tradizionali. Se pure il tentativo sembra quello di voler dire qualcosa di nuovo, l’effetto complessivo è di già visto, effetto che non migliora certo di fronte all’affresco della parete presbiteriale di mano del pittore Giuseppe Bertoldi, realizzato nel 1987 (fig. 19): qui il tentativo di fondare biblicamente la devozione al Sacro Cuore pare addirittura eccessivamente concettuoso, troppo preoccupato di dire tutto, di dare conto di ogni singolo personaggio e di ogni significato teologico. Lo spazio lasciato libero all’immaginazione di chi guarda è minimo, tanto che, alla fine ci si chiede cosa sia rimasto davvero della rappresentazione del Sacro Cuore. Più efficace l’opera di Carnessali che conserviamo nella nostra cappella di Bolognano (fig. 20): il Cristo è ritto, in piedi, presenta se stesso e la sua ferita sul costato alzando le braccia, quasi in segno di resa e consegna. La tunica bianca mette in risalto le righe di sangue rosso che sgorgano dall’apertura del cuore e che sembrano invadere l’intero dipinto, dando forma ad una macchia rossa sullo sfondo che prende le fattezze del cuore e che non può essere soggiogata dalle spine e dai segni di ferite nere che insistono sullo sfondo. Qui l’idea è che il cuore di Cristo sia il cuore del mondo e che il suo dolore sia il dolore del mondo. Un buon tentativo di dire qualcosa in modo nuovo anche se gli strumenti formali appaiono datati sulle ricerche spaziali post cubiste, in un momento in cui la ricerca artistica va in altre direzioni. Rimane poi l’incapacità di battere strade nuove sul versante simbolico e di intraprendere possibili percorsi che si allontanino dalle ovvie vie del formale. A Bologna, relegata in uno dei pianerottoli di passaggio nel giro scale dell’ala Ovest, troviamo un’opera di qualche interesse, non tanto per l’esecuzione che pare piuttosto modesta, ma per il tentativo di costruire un’iconografia di passaggio tra quella del Sacro Cuore, quella di Cristo Re e la forma che verrà poi ad assumere la tradizionale iconografia del Gesù misericordioso (fig. 21). L’opera databile probabilmente agli anni ’60, mi scuso ma non ho avuto modo di verificare con esattezza, presenta un Cristo in ieratica posizione frontale, in piedi, risorto, con le tre dita della mano destra ad indicare la presenza dell’intera Trinità e con la mano sinistra a sostenere il globo sormontato dalla croce, segno tradizionale del potere imperiale (fig. 22). Il cuore, circondato dalle spine, è in grande evidenza e da esso promanano i raggi della grazia che invadono lo spazio circostante. Vale la pena spendere alcune parole su questa questione per ricordare che l’iconografia della divina misericordia, come ci ricorda l’opera che stiamo presentando, deve molto a quella del Sacro Cuore e alle vicende di fine ottocento della sua definizione[3]. In effetti, proprio l’opera di cui stiamo parlando, testimonia di un ulteriore slittamento tra l’iconografia tradizionale del Sacro Cuore e quella che diventerà sempre più popolarmente diffusa del Gesù misericordioso (fig. 23). Anche in questo caso, però, non solo per noi dehoniani, ma per la chiesa intera, non si è stati in grado di fornire una nuova elaborazione iconografica che sostenesse il valido tentativo di ridare corpo alla devozione del Cuore recuperandone lo stretto legame con il tema della misericordia. Le vicende giubilari di quest’anno della misericordia, non sembrano fornire particolari spunti a riguardo: un’altra occasione mancata? Probabilmente si.

Rimane da analizzare un’ultima opera su cui, in questi anni, si è scritto e detto molto: il mosaico absidale della cappella di Capiago (fig. 24). Per un’esatta interpretazione dell’insieme dell’opera di M. I. Rupnik e del suo laboratorio, rimando agli scritti di p. Guccini e ai vari testi di presentazione del ciclo musivo. In questa sede vogliamo concentrare l’attenzione sulla grande scena centrale posta sopra la zona presbiteriale: il Cristo in croce tra Maria e Giovanni. Qui la radice biblica della devozione al Sacro Cuore trova una descrizione efficace e straordinaria: siamo di fronte ad una raffigurazione del Sacro Cuore? In senso stretto propriamente no, ma a nessuno verrebbe in mente di metterne in discussione l’evidenza. Il triangolo rosso della ferita sul costato, Giovanni che la indica, lo sguardo di Gesù rivolto a Maria chiesa nascente che guarda con speranza verso i fedeli, sono un potente condensato teologico della spiritualità del Sacro Cuore. Qui si è avuto il coraggio di ritornare alle fonti bibliche per dire che è in esse che bisogna cercare le radici anche iconografiche della devozione al Sacro Cuore: siamo di fronte ad un’arte spirituale, nata per vivere nel contesto liturgico, che sa dialogare con la liturgia stessa e che riformula in maniera nuova le radici stilistiche di matrice orientale e bizantina. Il colore torna ad avere un ruolo decisivo, eminentemente simbolico, un colore che dà vita alle forme e che è, di per se stesso, capace di veicolare contenuti, al di là del racconto. Se la matrice spirituale orientale è incontestabile c’è molto, in quest’opera, anche delle ricerche sui colori e le forme essenziali delle avanguardie del ’900. La fortuna di questo ciclo di mosaici, documentata dalle numerose riproduzioni e dall’utilizzo che di esse se ne fa in ambito editoriale, ecc., ci aiuta a comprendere come l’arte sappia ancora alimentare l’immaginario della fede. Forse il ridare vita ad una spiritualità come quella del Sacro Cuore passa anche da qui e non solo da un’accurata e puntuale ricerca teologica.

Vorremmo concludere il nostro intervento con alcune suggestioni che ci sembra il caso di sottolineare alla luce di quanto siamo venuti dicendo.

In primo luogo, abbiamo visto che siamo di fronte ad una storia non proprio fortunata: una storia iconografica che ha fortemente risentito delle difficoltà di rapporto tra Chiesa e arte, deflagrate in particolare nel corso dell’800. Dove però si sia stati capaci di dialogare in maniera creativa con artisti capaci, le sorprese non sono mancate: proprio la questione del dialogo con il mondo degli artisti pare essere oggi l’unica via percorribile per recuperare una qualità alta della proposta iconografica, cioè delle immagini capaci di raccontare non in maniera esaustiva una spiritualità, ma piuttosto di saperla evocare. Farlo attraverso il recupero dei racconti biblici, si pensi a cosa ha rappresentato per l’arte contemporanea l’esperienza di un autore come Chagall, restituendo all’arte la sua specifica capacità di favorire la trasmissione dei contenuti della Parola, ma avere anche il coraggio di ricercare nuove piste al di fuori del contesto più strettamente liturgico. Penso che sia il caso di superare l’annosa questione dell’esistenza di un’arte cristiana. Che ci debba essere un’arte che si possa adattare alle funzioni liturgiche penso non possa essere messo in discussione, ma che questa sia l’unica forma di arte con cui dialogare mi sembra del tutto fuori luogo. Anzi, penso che lo spazio della devozione, uno spazio mai interamente sovrapponibile a quello della liturgia, possa concedere ampi margini ad un proficuo dialogo con l’arte contemporanea. Questo anche rispetto alle forme più estreme di arte o a quelle che più potrebbero avvicinarsi ad esempio al mondo giovanile. Il tema della misericordia può diventare, allora, un’interessante chiave di lettura attraverso cui riproporre l’ingresso nella spiritualità del Sacro Cuore, accettando però che le forme iconografiche tradizionali possano essere messe totalmente in discussione. Forse a questo livello possiamo ancora suggerire qualcosa: possiamo farlo sul piano delle proposte culturali, ma anche accettando che possano esistere interessanti possibilità nelle forme espressive della contemporaneità: gli artisti non sono tutti morti nel Rinascimento e le uniche commissioni possibili non riguardano esclusivamente la realizzazione di chiese. Coltivare il nostro gusto personale per l’arte contemporanea, compreso il cinema, non vuol dire diventare degli esperti: vuol dire semplicemente interessarsi al mondo in cui si vive sollecitandolo ad accogliere una carica di spiritualità di cui forse ha un estremo bisogno. Molti artisti, oggi, cercano qualcuno con cui confrontarsi su questi temi: si pensi allo straordinario recupero, nell’arte contemporanea, di un tema come quello della croce, un recupero che ha saputo andare ben al di là della codificata tradizione iconografica, restituendo squarci di straordinaria spiritualità dentro la storia dei nostri giorni. Basti pensare ad autori come William Congdon (fig. 25), Bill Viola (fig. 26) o Mimmo Paladino (fig. 27), solo per citare i più famosi, per riflettere su quanto l’arte possa ancora dialogare in maniera veramente costruttiva con la fede, anzi come possa diventare nuovamente uno di quei luoghi fondamentali per raccontare la fede anche all’uomo contemporaneo. Sarebbe impossibile immaginare una parabola di questo tipo anche per l’iconografia del Sacro Cuore, laddove si lasci finalmente spazio alla libera interpretazione degli artisti, sapendo però suggerire le traiettorie da seguire? Questo non farebbe bene anche alla nostra stessa ricerca spirituale? Vorrei chiudere con un’ultima fantasia, per ritornare da dove siamo partiti: provate ad immaginare se al posto della pala del Sacro Cuore dietro all’altare della cappella dello Studentato ci fosse uno dei celebri tagli di Fontana, magari uno su fondo rosso, ad evocare una ferita (fig. 28). Non si tratterebbe di uno straordinario richiamo, questo sì profondamente evocativo, alla nostra spiritualità? Non sarebbe un aiuto alla preghiera, non stimolerebbe il desiderio e la ricerca, la voglia di attraversare quella ferita per andare incontro al cuore che ha tanto amato gli uomini da donare interamente se stesso per la loro redenzione?


[1] R. Barilli, L’arte contemporanea. Da Cézanne alle ultime tendenze, Milano 2008, p. 227.
[2] Cfr. D. Menozzi, Sacro Cuore. Un culto tra devozione interiore e restaurazione cristiana della società, Roma 2001, pp. 296-304.
[3] Un rapido ma puntuale excursus sulla questione lo possiamo trovare nell’articolo di L. Prezzi, Da Batoni a Kovalska, in «SettimanaNews», 30 marzo 2016.

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